DUE DONNE UN VESTITO DI NOZZE E DON CARLO

DUE DONNE UN VESTITO DI NOZZE E DON CARLO

“”Adriana ci devi consegnare il vestito del matrimonio di tuo marito: anche tu sai bene che non tornerà a casa, e a noi serve!””

Questa la perentoria richiesta più volte ribadita dei partigiani “rossi” rivolta a mia madre che, spalleggiata da nonna Maria, non aveva alcuna intenzione di soddisfare. Di mio padre, prigioniero in Germania, non si avevano notizie da tempo e, in paese, tanti lo davano per morto. In casa, in quel tempo, c’erano mia madre Adriana con mia sorella Maria Carla nata nel Gennaio 1944, mia nonna Maria con una sua nipote, una bimba, ospitata a Sologno per allontanarla dai frequenti bombardamenti che colpivano la città di Genova dove viveva la sua famiglia.  C’era anche Virgilio zio di mamma e fratello di nonna Maria che però viveva nascosto e ben di rado si faceva vedere per non arruolarsi nell’esercito di Salò.

Dopo l’ennesimo scambio di vedute con nonna Maria, mia madre decise di recarsi a Poiano per parlare con don Domenico Orlandini e chiedere aiuto. Don Domenico era fra i sacerdoti che avevano celebrato il suo matrimonio, conosceva benissimo mio padre ed era il fondatore/comandante dei partigiani “verdi” meglio conosciuto col nome di battaglia di “don Carlo”. In zona i suoi combattenti erano numerosi e, in gran parte, provenivano dai borghi della zona appenninica che conoscevano in maniera ottimale e contavano sul tacito supporto della popolazione locale

              




Dopo aver ascoltato mio madre don Carlo disse che era in grado di aiutarla e proteggerla da richieste indebite ma che anche lui aveva bisogno di aiuto per la sua gente. In sintesi, i partigiani di Don Carlo avrebbero sorvegliato la casa ma mia madre e mia nonna avrebbero dovuto accogliere in maniera segreta le persone che don Carlo doveva proteggere.

Nessuna notizia o informazione sarebbe stata data su chi doveva essere ospitato per ragioni di sicurezza. Gli “ospiti” erano sotto la costante protezione delle guardie che avrebbero sorvegliato l’edificio impedendo, in questo modo, intrusioni di altre forze partigiane. Così avvenne e ogni volta che c’era un allarme l’ospite di turno raccoglieva ogni sua cosa e spariva nei boschi con la sua guardia facendo ritorno dopo il cessato allarme. Mia madre e mia nonna dovevano riservare all’ospite una camera e provvedere al vitto. Non dovevano esserci rapporti o colloqui con la persona ospitata.

Nei racconti su questi avvenimenti mia madre ha sempre riferito che, a suo avviso, l’ospite che più a lungo soggiornò poteva essere (questo almeno era la sua sensazione) un farmacista della zona di Scandiano (RE) che teneva sul suo comodino una foto della moglie. Anche in tempi molto difficili, commentavano mia nonna e mia madre, non si deve mai smettere di sperare e, come esempio, quando ricordavano questi episodi, ci segnalavano, sorridendo, che uno dei partigiani di don Carlo, a guardia della nostra abitazione, ebbe modo di incontrare una ragazza che abitava a pochi passi da casa nostra con cui, a fine guerra, si sposò.

L’abitazione della mia famiglia era l’ultima casa lungo la strada comunale (quella più in quota) per Villa Minozzo sede del comune, che per la posizione strategica veniva requisita dalle truppe tedesche ogni volta che compivano rastrellamenti o incursioni.  In quelle circostanze emergeva il sangue freddo di nonna Maria che aveva fatto la balia poi la cuoca in Francia per diversi anni in casa di un alto Magistrato. Successivamente aveva lavorato a Genova come cuoca molto apprezzata in alcune “case di signori” e sapeva relazionarsi, anche per temperamento, con qualsiasi interlocutore senza timori. L’abitazione di nonna Maria aveva un forno a legna e i soldati tedeschi avendo necessità di cuocere il pane lasciavano qualche pagnotta alla  fornaia in cambio del servizio. In quei giorni, ovviamente, lo zio Virgilio e gli ospiti di Don Carlo si nascondevano in lontani rifugi nei boschi nei quali le truppe tedesche non entravano mai.

Dare ospitalità a persone nascoste o protette dalle forze partigiane significava la fucilazione ma nonna e mamma ci hanno sempre detto con semplicità che fare le “cose giuste” è la scelta migliore!

Contro ogni previsione mio padre, prigioniero in Germania, ma successivamente preso dai russi e internato a Kharchiv (allora in Unione Sovietica), fece ritorno in paese nell’autunno del 1945 con uno degli ultimi convogli della Croce Rossa. Ebbe modo di indossare il suo abito di matrimonio per parecchi anni grazie al coraggio di due donne che non si piegarono ad una richiesta indebita e per il rifiuto di una giovane sposa che nell’inverno / primavera del 1944 non volle credere alla prematura fine del suo matrimonio.

Per molto meno sono stati concessi onori e riconoscimenti: in questo caso, tuttavia, nessuno li ha richiesti. Mia madre ha sempre detto che il regalo più bello fu il ritorno del suo Antonio a cui lei non rinunciò mai di credere: neppure a rischio della vita. Per lei consegnare l’abito di nozze del marito avrebbe significato rinunciare alla speranza del suo ritorno.

Due donne per non piegarsi ad una pretesa illegittima che non intendevano esaudire e confidando in un sacerdote, sono diventate due combattenti partigiane.

Giuseppe Bonacini


Foto in alto: mia madre Adriana e mio padre Antonio nel giorno delle nozze a Sologno (18/04/1943)

Foto in mezzo: Nonna Maria Giorgini 

Foto in basso: don Carlo comandante partigiano fondatore Fiamme Verdi

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